mercoledì 11 marzo 2009

RiAttivare la memoria arcaica-nuovi sguardi sul futuro

Comincia a pensarsi come il prossimo salto nella storia dell’evoluzione.
E, pur sorridendo di se stessa, è tremendamente seria.
Robin Morgan
Che cosa ci spinge a interrogarci sulle antiche società del passato, a rivolgere la nostra attenzione alle rappresentazioni sacre e alle cosmogonie del femminile prima del patriarcato, a voler conoscere le società che ancora mantengono modelli matriarcali? E che cosa significa riattivare la nostra memoria arcaica, richiamare gli atti delle nostre antenate, che è quanto Mary Daly ci invita a fare?
Prima di rispondere a questa domanda è forse utile indagare la storia di un’interessante quanto potente parola, “matriarcato”, che da oltre un secolo divide studiose e studiosi, creando ora entusiasmi ora imbarazzi. Forse, perché dietro questa potente parola si cela un’interpretazione del mondo, la storia delle origini dell’umanità e, dunque, dei suoi possibili sviluppi.
Affermare che il mondo è stato sempre così come lo conosciamo, che per esempio la divisione del lavoro e della responsabilità tra i generi è stata sempre la stessa e ovunque, e affermare, invece, che la storia dell’umanità ha conosciuto modelli diversi di organizzazione sociale tra i sessi, dove cui l’apporto di civiltà e creazione delle donne è stato determinante, mette in campo premesse totalmente differenti da cui partire per pensare, eventualmente, un altro futuro. In queste righe è già in qualche modo contenuta implicitamente una risposta alle domande poste all’inizio: attingere dal passato per guardare al futuro, il che non significa naturalmente tornare indietro, semmai, ricordare alla storia patriarcale che la sua civiltà, che è stata posta all’inizio della storia, con ogni probabilità è succeduta a una civiltà più antica, il cui centro vitale era costituito dalle donne. Elizabeth Gould Davis, nel “Primo Sesso”, scrive che “il primato delle dee sugli dei, delle regine sui re, delle grandi matriarche che prima avevano addomesticato e poi rieducato l’uomo,
andava nella direzione di un passato mondo ginocratico. Egli, l’uomo (patriarcale) ha
riscritto la storia con la consapevolezza di ignorare, sminuire e ridicolizzare le grandi donne del passato… e ha rifatto Dio a sua immagine”.
Pensare un altro futuro, più equo e basato su principi intelligenti coltivati in migliaia di anni di esperienza femminile, ma anche di lotte, pensiero e pratiche - e questa è storia recente - è un compito che ci riguarda tutte. E’per questo che le teorie sulle origini della civiltà che di volta in volta vengono avanzate presentano non solo un interesse accademico, ma sono un vero campo di battaglia per le prospettive future dei nostri sistemi sociali e delle nostre vedute sulle possibilità umane. Allora diciamolo e sosteniamolo: il mondo non è stato sempre patriarcale, e il sistema di
sopraffazione intorno a cui ha cominciato a organizzarsi questo tipo di società, il cui circolo vizioso sta ammorbando ogni aspetto della nostra vita, un tempo, forse poi non così mitico come vogliono farci credere, non esisteva. Lo testimoniano le continue scoperte di civiltà passate che non mostrano segni di violenza, lo confermano i ritrovamenti archeologici disseminati in varie parti del mondo, lo raccontano le leggende, i miti e gli archetipi, la storia del folklore e l’arte popolare
che sotteraneamente hanno attraversato la storia patriarcale.
Non erano matriarcali quelle società, nel senso di un equivalente femminile del patriarcato, vale a dire che non prevedevano forme di predominio femminile, ma mettevano in campo valori di fondo, oggi diremmo spirituali ed etici, incentrati su un modello femminile che informava l’intera struttura della società a tutti i livelli:economici, estetici, politici, sociali. La storia di questa potente parola, matriarcato -ora cominciamo a vederlo – è intrisa di malintesi e omissioni e ha finito per diventare fuorviante, pur conservando una sua realtà, verità e forza, che forse va indagata diversamente. Vediamone un po’ la storia.
Matriarcato, una parola che fa paura.
Gli studi che a partire dall’800 si sono occupati del passato e delle cosiddette popolazioni primitive sono stati spesso sostenuti da una logica interpretativa di semplice rovesciamento del concetto di patriarcato. Ciò significa che si è dato per scontato tale ordine, e quello che non vi rientrava veniva letto con lo stesso sistema di valori e non eventualmente secondo presupposti altri, non considerando cioè organizzazioni mentali o strutture sociali differenti, cosicché il diverso, l’altro, sono diventati speculari. La lettura che ne è uscita è che sarebbe esistito un matriarcato, le cui premesse erano esattamente le stesse del patriarcato, come dire, invece del
dominio maschile esisteva un dominio femminile. Sebbene molti antropologi associno il termine matriarcato col lavoro di Bachofen o con quello di Morgan, il termine, di fatto, fu usato per la prima volta da Taylor nel 1986, mentre Bachofen usò il termine “Das mutterecht”, “Il diritto della madre”, tradotto poi con “ Il Matriarcato”.
Nella seconda metà del ‘900, grazie ai nuovi studi e le nuove scoperte nel campo dell’archeologia e dell’antropologia, vengono prese in esame culture differenti dalle nostre, come quelle aborigene, africane , della Nuova Guinea ecc. Ci si accorge allora che usando parametri di valutazione, quali matriarcato contro patriarcato - seguendo cioè una logica duale di contrapposizione - questa non funziona perché in quelle società vige un sistema del sacro e del sociale diviso tra maschile e femminile, dove ciascun genere ha le proprie conoscenze ed entrambe hanno pari dignità e peso.
In queste società esiste un sistema di discendenza matrilineare con forme di residenza
matrifocale, ma non per questo sono le donne a dominare. Come scrive Luciana Percovich, “alla luce di questi studi è stato possibile poi dare una lettura diversa anche alle testimonianze che arrivavano dal nostro stesso passato, cioè dalla nostra stessa Europa”. E’ in questo periodo che gli studiosi cominciano ad ammettere, non senza imbarazzo, che la storia dei Greci e dei Romani non è la sola storia a cui guardare , e quella indiscussa su cui si fonda e autolegittima la civiltà occidentale, ma che prima c’era stata anche tutta un’altra storia, insieme a quella parallela che
esisteva al di fuori dei confini territoriali e conoscitivi della polis o della civis romana. Insomma quei barbari non erano forse poi così barbari. Era esistito un patrimonio di conoscenze, tecniche, miti e beni materiali di cui anche la civiltà con la c maiuscola si era servita. E’ così, continua Luciana Percovich che “anche i Celti hanno avuto il loro riconoscimento e non dispero che anche le culture protoeuropee prepatriarcali - di cui parlare adesso fa rischiare ancora il ridicolo - un po’ alla volta si imporranno al riconoscimento generale, viste le continue conferme che giungono
dai miti e dalle leggende, dalle testimonianze archeologiche , linguistiche e ora anche genetiche”. Negli anni successivi sono nati poi altri studi, soprattutto di donne, che per evitare l’equivoco del capovolgimento matriarcato-patriarcato hanno messo in campo nuovi termini come gilania, matrifocalismo, matrilinearità, per dar conto di una civiltà egualitaria incentrata sul femminile in cui la donna era preminente, in quanto elemento civilizzatore e non dominatore. E’ il caso anche del lavoro di Marija Gimbutas, che per descrivere l’Europa neolitica ha rifiutato il termine matriarcato, preferendo il termine gilania .
E’ vero però che questi termini sono ugualmente problematici perché mettendo in risalto la linea di discendenza e il modello di residenza non sempre rendono giustizia all’ordine cosmologico e socioculturale informato dal femminile che nell’insieme reggevano quelle società.
I nuovi studi matriarcali contemporanei che si sono sviluppati in questi ultimi vent’anni stanno mettendo in campo un concetto culturale specifico di matriarcato, che va al di là del pregiudizio ideologico legato all’analogia con il patriarcato, e sostengono la necessità di riconfigurare il concetto, vista la mancanza di una teorizzazione precisa. Questa nuova scienza multidisciplinare e transculturale esplora società antiche e contemporanee che mostrano e riconoscono il ruolo centrale delle donne nello sviluppo delle società umane, mettendo in luce la profonda struttura
incentrata sul femminile e il modo in cui va a impattare sull’organizazzione sociale, politica, economica. E’ il caso di molti gruppi etnici minoritari, (circa un centinaio) sparsi in varie parti del mondo, dall’Africa, all’Asia agli Stati Uniti, che hanno conservato modelli matriarcali fino a oggi. L’antropologa femminista, Peggy Reeves Sunday, sostiene che il termine matriarcato si può usare in quelle società dove l’ordine cosmologico e sociale è legato a un’antenata fondatrice, primordiale, dea madre, o regina archetipa – mitica o reale – i cui principi sono incanalati in specifiche linee-guida di condotta pratica. Vale a dire che le qualità archetipe dei simboli
femminili non esistono soltanto nell’ordine simbolico, ma si manifestano anche nelle pratiche sociali che influenzano la vita di entrambi i sessi, e vanno a nutrire l’intero ordine sociale dando vita a società equilibrate.
Nella definizione di Peggy Sunday Reeves, il contesto di matriarcato non riflette un potere femminile sui soggetti, non è un potere soggiogante, ma un potere femminile di donne, di madri e di anziane, che congiunge, lega e rigenera i vincoli sociali nel qui e ora e anche nell’aldilà. La connessione tra l’archetipo e il sociale fa sì che queste società non siano interpretate come l’equivalente femminile del patriarcato. E’ il caso per esempio dei Minangkabau, una popolazione indonesiana (Sumatra occidentale) - studiata in passato da alcuni antropologi e dalla Reeves
nuovamente presa in esame (l’autrice ha vissuto parecchio tempo con loro) – che osserva la linea di discendenza matrilineare e che si autodefinisce matriarcale.
In questa società il legame madre-bambino è sacro, parte della legge naturale. Esistono leader sia femminili che maschili nella vita pubblica e sociale, ma l’azione politica, in tutte le sue espressioni, ruota intorno a e si confronta con un sistema cerimoniale e rituale della vita ciclica, conservato e trasmesso dalle donne. Insieme, uomini e donne mantengono l’ordine della tradizione contro le tremende spinte della modernità e della globalizzazione.
Gli studi su queste minoranze emarginate e minacciate, così come lo studio di società passate della nostra storia umana, sono un campo di studi aperto. Nel 2003 si è tenuto nel Lussemburgo il primo Congresso Internazionale di Studi Matriarcali organizzato dalla filosofa Heide Goettner-Abendroth, e nel 2005 ad Austin, in Texas, si è tenuto il secondo, organizzato e finanziato da Genevieve Vaughan. Vi hanno partecipano studiosi europei e statunitensi, oltre a rappresentanti indigeni, uomini e donne, delle società matriarcali. Il modello egualitario e pacifico che trasmettono queste società possono fornire lenti attraverso cui vedere le culture pre-indoeuropee dell’antica Europa, oltre a porci di fronte al compito di salvaguardare e rispettare queste minoranze. Non ultimo, i modelli di socializzazione concepiti al di fuori delle
norme patriarcali e nel rispetto della diversa forma dell’energia femminile, possono suggerirci vie alternative da percorrere in questo momento di grande trasformazione dei ruoli di genere. Scrive Riane Eisler: “E’ proprio in tempi di grande squilibrio sociale e tecnologico che la possibilità di cambiamento di struttura dei sistemi, della costruzione dei ruoli e dei modelli delle relazioni subiscono maggiori spostamenti”.
Sapere allora che sono esistite e continuano a esistere società più equilibrate delle nostre, sorrette da politiche pacifiche ed egualitarie, attente agli ecosistemi e ispirate alla comunione della natura e dello spirito, che celebrano la vita e non la morte, credo sia una grande ricchezza per tutte noi. Possono far crescere la speranza e suggerirci una via di cambiamento.
... Ma com’è successo?
Forse, noi non sapremo mai dire esattamente quali sono stati i fattori decisivi che un tempo hanno fatto sì che si insaturassero gli attuali modelli di relazione tra i sessi, non sapremo forse mai dire se è stato un repentino cambiamento del clima, una glaciazione con conseguente inasprimento delle condizioni di vita dove la forza ha avuto il sopravvento, oppure un processo lento e inesorabile di degrado, o l’introduzione di nuove tecniche, o tutte queste cose insieme. Resta il fatto che da un certo momento in poi, su ogni aspetto della nostra esistenza ha prevalso
l’oscuramento del principio femminile della vita, in tutte le sue possibili manifestazioni. La maggior parte delle mitologie del mondo testimoniano di un conflitto ancestrale tra dei e dee o tra uomini e donne. Sorprende vedere quanto i racconti che si possono raccogliere in Africa, Oceania, o presso gli Indiani d’America rassomiglino a grande linee ai testi arcaici dell’area mediterranea. Da sole, le interpretazioni dei miti o quelle della psicoanalisi non possono spiegare a fondo
questa coincidenza. Del resto, è strano constatare come i rari esempi di società matriarcali pervenuti fino a noi non abbiano miti di contrapposizione uomo-donna nelle loro cosmogonie. Si può dunque supporre che quei racconti testimonino, a loro modo, un episodio storico antico e fondamentale.
Gli esempi che si possono trovarein Nuova Guinea, in Africa, come in India, raccontano tutti, in forme sia pur diverse, la stessa storia: a un certo punto gli antenati maschili si sono impossessati degli oggetti sacri scoperti dalle antenate femminili. Li hanno portati nella casa degli uomini e ne hanno impedito l’accesso alle donne, e poiché questi oggetti sacri rappresentano anche le insegne del potere, è ben comprensibile la portata di tali racconti. D’altra parte molte tradizioni convengono sul fatto che prima, in un tempo altro, le cose andavano diversamente. Ce lo raccontano gli antichi miti greci, l’età dell’oro di Esiodo, le leggende azteche e dei maya (le poche rimaste), lo afferma il Tao te Ching di Lao Tse, ce lo ricorda la Bibbia col suo giardino dell’Eden.
Certo, l’indagine dell’universo dei miti e delle tradizioni non basta, sarebbe importante non trascurare le strutture sociali ed economiche… Ma la verità è che si sa ben poco sulle prime strutture sociali degli esseri umani. Di certo il riconoscimento della parentela da parte di madre ha preceduto quella da parte di padre.
Le prime forme stabili di organizzazione sociale erano dunque matrilineari: alcune donne unite
da legami di parentela (madri, figlie, sorelle) costituivano il centro del gruppo, mentre gli uomini (figli e fratelli), presumibilmente si spostavano da un gruppo all’altro. Là dove vi erano le madri vi era anche il centro della struttura.
Gli studi antropologici contemporanei che hanno indagato le origini della subordinazione femminile all’interno delle prime comunità umane, utilizzando il metodo di analisi marxista - di certo molto poco di moda attualmente - hanno focalizzato l’attenzione sul ruolo della produzione svolto dalle donne e non solo su quello della riproduzione. E comunque su questi due categorie, produzione e riproduzione, si dovrebbe forse sviluppare un discorso che interroghi le loro premesse e metta in luce la relazione dinamica tra i due processi .
Esiste un’interessante ricerca collettiva, pluridisciplinare, condotta da alcune antropologhe che, approfittando della ricchezza delle ricerche etnologiche recenti e passate sulle società cosiddette claniche o di lignaggio sia in Africa che in America, e comparate alle società tradizionali ad economia di lignaggio del terzo mondo, hanno costruito stimolanti ipotesi sulle prime società comunitarie. Queste studiose sostengono che man mano che si sviluppa un livello di produzione più elevato e un surplus, le comunità codificano regole di parentela che permettono la formazione di gruppi umani sempre più ampi e stabili. Queste società formate sia sulla matrilocalità che sulla matrilinearità hanno il controllo della produzione e dell’eccedenza, il che avrebbe portato a creare scontri fra donne e uomini, probabilmente di gruppi parentali differenti, per accaparrarsi il controllo dei beni. Le migrazioni seguite ai probabili sconvolgimenti climatici avrebbero poi allargato sempre più queste comunità, portando nuovi usi e costumi, nonché armi.
L’evoluzione naturale di queste società avrebbe dovuto avere come esito un certo grado di controllo femminile, il fatto che sia avvenuto il contrario si può spiegare solo attraverso una vittoria maschile ottenuta con la forza e con le armi, che avrebbe instaurato il controllo della forza lavoro femminile con la relativa patrilocalità. Questo rovesciamento dell'antico sistema matrilocale avrebbe così dato vita a un nuovo modo di produzione basato sullo sfruttamento del lavoro femminile (le spose che arrivavano dall’esterno, la poligamia, la dispersione dell’eredità femminile), offrendo un più ampio potenziale di espansione alla produzione che superava così il necessario livello di sussistenza quotidiano.
Il fatto che la matrilinearità non scompaia immediatamente, ma che si instauri la patrilocalità, che esistano cioè società matrilineari patrilocali, crea una contraddizione e una illogicità per poter pensare che siano comparse spontaneamente; sarebbero dunque prove di un’imposizione forzata. Tutto ciò porta le antropologhe a ipotizzare che una delle cause delle origini della dominazione maschile sia la lotta per il controllo e la gestione del lavoro delle donne e dei loro prodotti , avendo queste svolto innegabilmente un ruolo produttivo centrale nelle prime comunità umane. Il controllo sul potere riproduttivo delle donne sarebbe scaturito come conseguenza.
L’emergere molto più tardi dello stato, delle classi sociali e della proprietà privata si fonderebbe poi sulla prima forma di oppressione che la società conosca , quella femminile.
Queste teorie possono offrire interessanti spunti da cui partire per fare un’ analisi delle nostre economie oggi.
Piccolo balzo temporale...
Sapevamo bene noi quali erano e come dovevano essere svolti i lavori perché tutta la comunità godesse di prosperità e serenità. Noi, che dalla mattina alla sera non ci fermavamo un momento perché volevamo raccogliere i frutti che la terra ancora una volta ci regalava, e perché con quei frutti dovevamo preparare il cibo che avrebbe sfamato i nostri uomini e i nostri figli. E poi perché era tempo di preparare le bevande sacre, noi sole avevamo quella conoscenza...
E dovevamo custodire il granaio, il deposito comune… Erano le riserve per il nostro fabbisogno, erano la sopravvivenza della nostra comunità, per i momenti di carestia. Eppure, anche così indaffarate eravamo felici, in perfetta sintonia coi nostri cicli e quelli della natura. Poi le cose sono cominciate a cambiare… Man mano che i nostri depositi si riempivano, certi uomini alleati con alcune donne della nostra tribù permisero che queste si sposassero con uomini di altri lignaggi, cosicché le nostre comunità si allargassero e accumulassero maggiori ricchezze. La nostra discendenza si trasmetteva di madre in figlia, avevamo sempre abitato presso le nostre madri,
eravamo noi a gestire i magazzini, ad averne il controllo. Le nostre comunità cominciarono a divenire sempre più numerose. Fu un periodo di grandi sconvolgimenti, anche climatici, a cui seguirono carestie, ci furono molte migrazioni a quel tempo. Nelle nostre comunità arrivavano continuamente genti nuove. Avevano altre abitudini, veneravano altre divinità, avevano armi. Anche i nostri uomini cominciarono ad adottare quelle armi, e quei costumi e quelle divinità. Lentamente ma inesorabilmente presero il controllo dei nostri depositi, imposero nuove regole di
parentela. Fummo costrette a lasciare le nostre madri e spostarci nelle famiglie degli uomini.
Ci disperdemmo. Le eredità che le nostre madri un tempo ci avevano lasciato, finirono anche quelle nelle loro mani. Volevano accumulare sempre di più, dicevano che avevano paura degli assalti delle altre tribù, perché come loro avevano armi, armi e armi. Ci facevano lavorare molto più di quanto ce ne fosse bisogno, ci portavano in guerra con loro perché li sostenessimo con cibi e bevande, e con tutto quello che serviva. Ognuno di loro aveva due o più donne. Si crearono tra noi rivalitàe gelosie, ci disperdemmo...
Tornando al presente. Altro balzo temporale.
Questa favoletta vorrebbe illustrare il passaggio da una forma organizzativa di tipo matriarcale a una patriarcale e il modo in cui sarebbe avvenuto il cosiddetto “accaparramento del controllo del surplus”, di cui ci parlavano le due studiose marxiste. Poi, come vuole la regola, trasmettere una
piccola morale: quando gli uomini si impossessano con la violenza delle risorse comuni gestite dalle donne perdono di vista il benessere generale della comunità.
E’ curioso, ma una delle questioni che più hanno interessato gli storici e gli studiosi - il lavoro umano - non è mai stato studiato in una visione d’insieme dal punto di vista femminile. Hanno iniziato a farlo le donne in questi ultimi quarant’anni. Le donne sanno bene di non potersi sottrarre al lavoro, mai potranno farlo, perché è una condizione del loro essere nel mondo, ne andrebbe della loro stessa possibilità di vivere su questo pianeta. E lo sanno anche gli uomini, ma fannofinta di niente. Il lavoro femminile di sostentamento, cosiddetto di cura, resta per le nostre società nell’ordine della natura, un prolungamento delle qualità naturali delle donne, e solo quando si presenta in forme e condizioni che si avvicinano a quelle consuete degli uomini, la manifattura, la fabbrica, l’ufficio – il lavoro “fuori” per intenderci – allora si dice che una donna lavora. Certo che lavora, ma il doppio. E’un’annosa questione. C’è l’aggiunta del “naturale” lavoro quotidiano, dei figli, delle cure, delle attenzioni, delle relazioni, quello invisibile di sempre, quasi mai riconosciuto, perché “naturale”. Ma non c’è nessuna fatalità biologica in tutto questo,
semmai dei precisi disegni sociali le cui origini sono molto lontane nel tempo. Non sarà giunto forse il momento di riconoscere questo lavoro di civiltà, di restituirgli riconoscenza, valutarne la dignità e il prestigio, la forza, la potenza, e su quelle qualità porre le basi per pensare e agire in direzione di un altro presente e futuro?
Nella stanchezza generale e nel vuoto di senso che incombe oggi su gran parte delle nostre economie e dei nostri lavori, alcuni uomini si sono inventati la facile utopia della “fine del lavoro”. Ma non bisogna dar loro molto credito, non sarà certo l’ipertecnologizzazione a liberarci, semmai rendere più vivibile ciò che ci circonda. E questo significa ridiscutere i modelli dei nostri sistemi economici mondiali malati, non portargli più assistenza, non sostenerli più. Guardare altrove, perché lì non c’è spazio per i nostri pensieri, la nostra libertà, quello che ci piace e sappiamo si deve fare, quello che fa la qualità della vita. La sacralità del lavoro può essere tale solo se
praticata secondo altri principi, che non siano quelli dell’accumulo, dell’accaparramento, della sopraffazione. La condivisione, il dono, una prospettiva economica che tenga conto del legame di solidarietà tra le persone e i popoli non può più attendere. I depositi comuni delle nostre amiche della favoletta possono forse insegnarci qualcosa…
Le domande che ponevo allora all’inizio - che senso ha interrogare la storia dell’umanità prima del patriarcato, ricordarne le cosmogonie e i miti, guardare alle società del presente che ancora praticano modelli di relazione equi tra i sessi - trovano la risposta semplicemente in un unico verbo: esserci.
Nella vita, nel mondo, nella storia e nelle molte dimensioni che sappiamo esistere. Essere non è un verbo statico, come ci ricorda Mary Daly, è un verbo transitivo, attivo, che non si contrappone a divenire, come ci hanno insegnato. Essere il divenire è molto meglio.
Vuol dire partecipare al tempo passato, il nostro individuale, quello di “quando avevamo cinque anni ed eravamo tutte filosofe”, ma anche a quello originario arcaico collettivo che continua a vivere nel retroscena. Se riusciamo entrare in contatto con le nostre radici ed estenderle, possiamo fare un balzo in avanti, e da questa prospettiva vedere, nominare, agire. E’ attraverso la successione di tali atti che possiamo creare un futuro reale, ossia, un futuro arcaico.
Accedere alla memoria profonda del tempo arcaico non è facile né difficile, basta solo sentire intuitivamente la verità delle nostre origini. Qualcuna ci dice come fare:
C’è stato un tempo in cui non eri schiava, ricordalo. Camminavi da sola, ridevi, ti facevi il bagno con la pancia nuda. Dici di non ricordare più niente di quel periodo, ricorda… Dici che non ci sono parole per descrivere quel tempo, dici che non esiste.
Ma ricorda. Fai uno sforzo per ricordare. O, se non ci riesci, inventa.”
Testo di Nicoletta Cocchi (2006)
Testi di riferimento
Mary Daly, Quintessenza - Realizzare il futuro arcaico, Roma, Venexia, 2005
Nicole Chevillard- Sébastien Leconte, Lavoro delle donne potere degli uomini,
Erre emme edizioni, 1996
Luciana Percovich, Storie di creazione: immagini del sacro femminile, dispense
Libera Università delle Donne, 2000
Per le informazioni sui nuovi studi matriarcali:
www.second-congress-matriarchal-studies.com

lunedì 2 marzo 2009

8 marzo : Giornata internazionale delle donne

La data dell’8 marzo è la Giornata Internazionale delle Donne e simboleggia la lotta delle donne di tutto il mondo per affermare i loro diritti, le loro aspirazioni, per uscire da una condizione di subalternità e di oppressione.
In questi ultimi 100 anni le donne si sono faticosamente battute per essere cittadine a pieno titolo sia nella società sia nel lavoro, partendo dalle norme della Costituzione, al diritto di voto, attraverso tutte le leggi per la parità del lavoro, alla tutela della maternità e paternità, nella condivisione dei lavori di cura con i propri partner, a partire dalla conciliazione fra tempi di vita privata, di lavoro, e di famiglia.
Valori che ancora oggi non trovano una piena realizzazione e vanno difesi. A questo proposito mi sento di condividere insieme con quanto Lilli Gruber afferma a conclusione del libro “Streghe” La riscossa delle donne d’Italia al capitolo: Né angeli, né diavoli di cui vorrei citare un breve stralcio.
«Il mio viaggio tra le donne italiane ed europee mi ha insegnato che non hanno bisogno di essere streghe per assumere la responsabilità e i poteri che spettano loro di diritto. Né angeli, né diavoli, hanno abbandonato le rappresentazioni idealizzate e oggi lottano per emergere nella loro identità:persone vere, con i loro bisogni e potenzialità e la quotidiana fatica di vivere, proprio come gli uomini. Pronte a rivendicare un posto in una società che non può fare a meno di loro.
Tuttavia ho scoperto anche che il traguardo è lontano: socialmente, economicamente e politicamente, la metà femminile nel nostro Paese rimane ancora nell’ombra. E’ un fallimento per una nazione moderna, un grave handicap, ma è anche un errore che può essere corretto. Non c’è nessuna fatalità nella discriminazione. Oggi abbiamo il dovere di applicare i meccanismi grazie ai quali sarà possibile mettere pienamente a frutto la forza delle donne.
Nel corso delle mie interviste ho avanzato fino alla raucedine e forse alla noia, la questione delle cosiddette “quote rosa”. E’ perché io stessa sono una “pentita”: ferocemente contraria quando ne sentii parlare la prima volta ritenevo, come molte pensano ancora oggi, che fossero un modo per ammettere la propria inferiorità e ghettizzarsi da sole. Oggi penso che sia stato un grave errore non averle pretese con la forza necessaria. So che sono una via, forse l’unica, per mettere in risalto le competenze femminili in un mondo che tende a disprezzarle. E per correggere una distorsione del mercato del lavoro: il monopolio maschile del potere decisionale.
Le riforme non sono difficili come alcuni vorrebbero lasciarci pensare. Prendiamo la Francia, Paese latino con un governo di destra. Il 31 gennaio 2007 il Parlamento francese ha approvato una legge che prevede la presenza, negli organi esecutivi comunali delle città con più di 3500 abitanti, di un numero uguale di uomini e donne. Ha così completato la norma che prevedeva la parità tra i sessi anche all’interno dei consigli comunali. Un anno dopo, nel marzo del 2008, le elezioni municipali hanno sancito la quasi parità tra i sessi nei comuni interessati dalla legge: 42.650 donne sono state elette sugli 87.873 incarichi da coprire. Ovvero il 48,5 per cento delle poltrone sono state rifoderate di rosa. La ripartizione degli assessorati lascia ancora a desiderare, con le donne spesso incaricare di gestire ambiti considerati secondari, ma il progresso è innegabile e il potere locale è diventato un altro fronte della battaglia per la parità politica in Francia.
In Italia siamo molto lontani dai nostri vicini d’Oltralpe:le donne rappresentano solo il 17,6 per cento dei consiglieri comunali e meno del 9,7 per cento dei sindaci. Questo squilibrio è il sintomo di una grave mancanza di democrazia. Smentisce fin dal primo livello di rappresentanza politica, il principio di uguaglianza tra i sessi che pure è tra i fondamenti teorici dell’ Italia repubblicana. E’ una vera e propria ingiustizia che racchiude una grave accusa contro i responsabili del perpetuarsi di questa situazione: i partiti politici. Sono loro che devono dare l’esempio, non solo con le pennellate di rosa in campagna elettorale, ma promuovendo norme e leggi che consentano di rompere davvero il soffitto di cristallo.
Questo è vero riformismo. Libererebbe molti talenti preziosi per la gestione di realtà locali sempre più complesse e conflittuali. Aprirebbe la strada alla creazione di una nuova classe dirigente politica femminile sul territorio. Preparerebbe la costituzione di un Parlamento nazionale con davvero pari opportunità, responsabilità, rappresentanza. Possiamo chiedere questo ai partiti che da troppo tempo si sono arrogati il diritto di parlare per noi. Sono pronti oppure no a presentare in tutte le città italiane lo stesso numero di donne e di uomini per coprire gli incarichi dei consigli comunali?
Questo non è che uno dei fronti che si possono e devono aprire.
C’è la battaglia contro gli stereotipi del femminile nei media, c’è l’emergenza violenza da affrontare, c’è da riconquistare persino il diritto al proprio specifico riconosciuto dolore.
E mentre si affrontano le lotte del domani per la rappresentanza in politica e la parità nelle professioni, non ci si può permettere di perdere di vista le conquiste di ieri, continuamente minacciate da chi – uomini e donne- auspica un rassicurante, ma impraticabile, ritorno al passato.
La prima cosa da fare è ricostruire un dialogo femminile che fino a pochi anni fa era vivo e fecondo. E che oggi non è certo spento, ma offuscato dalle emergenze del presente. Donne con diverse fedi politiche, credi religiosi, professioni, vite, devono tornare a parlarsi di quello che veramente serve a tutte quante. Ovvero il diritto ad essere cittadine, lavoratrici, mogli, madri o nessuna di queste cose se lo desiderano, ma anche tutte, se ne sentono il bisogno. Accanto a uomini che finalmente accettino di rimettersi in discussione. Smettendola di fingersi ignari che anche per loro il mondo è cambiato.
Per questo la battaglia va condotta in parte contro coloro che non vogliono cedere, e non cederanno spontaneamente, le leve del potere. Non si tratta di intraprendere una campagna per l’annientamento dei maschi, bensì di lavorare per la piena realizzazione delle potenzialità di ognuno. E non solo perché una piena partecipazione femminile alla politica e all’economia porta, come abbiamo visto, più ricchezza e più figli. Ma anche perché una vita migliore per le donne significa meno frustrazioni, relazioni meno conflittuali, una quotidianità più serena. E forse persino un nuovo approccio al potere che potrebbe fermare la deriva del pianeta.
Non è un’utopia: le utopie nei secoli si sono sempre dimostrate pericolose. E’ credo, un’opportunità da cogliere, ricongiungendo nell’impresa comune le due metà del cielo.
Vogliamo tutto. Stavolta dobbiamo volerlo tutti assieme.»